Conversare ancora
Certo, si può. Si può conversare con un malato di Alzheimer che ha perso il contatto con la realtà, anche quando mancano oramai le parole, quando le labbra sembrano incapaci di pronunziare quelle parole usate tutta la vita, e anche quando queste scompaiono del tutto.
Una delle esperienze più dolorose per il caregiver è la progressiva scomparsa della capacità di relazionarsi con la propria famiglia e con i propri amici a causa della perdita dell’eloquio.
Questa perdita si manifesta inizialmente con la difficoltà de trovare la parola giusta insieme con l’incapacità di capire od esprimere concetti astratti. Purtroppo il cargiver spesso s’impazientisce, si irrita e cerca di ristabilire la comunicazione ripetendo le stesse domande, o facendolo a voce più alta. Naturalmente questi sforzi sono vani, così come sono vane le speranze. Il malato reagisce nella maggioranza dei casi con aggressività o silenzio, frustrato dalla propria impotenza ad esprimere i suoi pensieri e le sue volontà, e la tensione cresce.
“Che stai facendo?”, chiedevo a mio marito senza certo aspettarmi una risposta logica.
“Sto, sto … ci sono gli animaletti” diceva lui. Ed io, senza provare a dare un senso alla sua risposta, facevo in modo di dargli l’impressione di aver capito, e questo le rassicurava. Oppure era lui che mi faceva una domanda:
“Ma do …dolo è?” ed io dovevo capire, interpretare, spesso sbagliando, che forse mi chiedeva l’ora.
E’ questo il momento di cambiare tattica.
Mi diceva:“Mi sono… agganciato” ed io rispondevo: “Ti sei addormentato?” e facevo finta che l’errore era uno scherzo, un indovinello da decriptare, e lui, nel vedermi ridere, sorrideva contento. Non rideva più, non so da quanto tempo. Però sorrideva ancora, e questo suo sorriso un po’ complice mi dava l’impressione di essere stata autorizzata a penetrare il suo mondo. Per tutta la durata della malattia, il suo sorriso, a volte tenero a volte luminoso, mi faceva capire che tra di noi c’era ancora una porta aperta. Era il nostro codice segreto, il nostro momento di intimità.
Purtroppo questa fase della malattia, prima o poi, si risolve nelle perdita sempre più ampia delle parole e finisce con la rinunzia o l’incapacità pressoché totale di esprimersi verbalmente.
E’ là che interviene il compito del caregiver, con la ricerca di modi nuovi e sempre più inventivi di mantenere viva la comunicazione.
E’ anche fondamentale, in questo tragico momento di collasso delle capacità cognitive, di ricordare che il malato non smette mai di sentire, e che le sue azioni e reazioni, anche se a noi paiono inconcludenti, hanno sempre uno scopo.
Il caregiver non deve abbandonarsi alla disperazione, ma adottare modi diversi di conversare, ispirandosi a qualche abitudine o qualche atteggiamento tipico del passato.
Mio marito, ad esempio, amava vestirsi bene, aveva una civetteria tutta sua e ci teneva ad essere elegante per recarsi ad un ricevimento. Aveva l’abitudine di tirare fuori dall’armadio diversi vestiti che appoggiava sul letto, insieme ai quali venivano fuori una manciata di cravatte ed un’altra di calze, nonché diverse paia di scarpe, prima di scegliere l’abbigliamento ideale.
Ora, conoscendo i suoi gusti, esaminavo con lui il vestito che avrebbe indossato ma lasciandolo libero di fare la sua scelta finale. E lui, anche nella fase avanzata della malattia, improvvisamente sicuro di sé, si piantava davanti allo specchio che, in quella occasione, non lo spaventava, si aggiustava il nodo della cravatta, si lisciava con le mani i capelli e si avviava verso la porta.
Credo che queste piccole intese fra di noi lo aiutavano a sentirsi di nuovo padrone della situazione e a provare, una volta di più, la sensazione di appartenere ad un mondo familiare, nel quale la sua opinione aveva ancora un peso nella presa di decisioni che lo riguardavano.
Federica Caracciolo