Dopo…

Abbiamo parlato spesso sulle pagine di questo giornale dei gravi e molteplici problemi che sono chiamati a fronteggiare ed a risolvere quotidianamente i familiari di malati di Alzheimer; abbiamo evocato strategie di adattamento e suggerito soluzioni atte a facilitare il compito del caregiver familiare e dare serenità al paziente in modo da migliorare per ambedue la qualità della vita.

Ma non abbiamo parlato di ciò che avviene dopo la scomparsa della persona amata e della nuova situazione che si viene a creare. Anche in questo caso affiora una serie di problemi da affrontare. Importante tra questi è il grande vuoto con il quale occorre convivere, un vuoto tanto più profondo quanto più intenso è stato l’accudimento e che, spesso, fa cadere il caregiver in uno stato di depressione dovuto alla scomparsa dell’impegno che lo aveva sorretto durante tutti gli anni della malattia. Il lutto può essere molto duro da elaborare, anche perché si accompagna a dolorose reminiscenze. E’ difficile separare il ricordo, l’immagine della persona cara, resa invalida ed impotente dalla malattia, da quella che si vorrebbe preservare e che la vede nella pienezza delle sue facoltà mentali. Infatti, mentre vorremmo ricordare il nostro caro nei momenti di maggior attività fisica ed intellettuale e di massimo rendimento, ecco che si sovrappone insistentemente l’immagine di un essere indifeso e totalmente dipendente.
La casa appare improvvisamente troppo grande e silenziosa e si sente la mancanza addirittura delle persone assunte in qualità di badanti, dopo mille esitazioni all’inizio della malattia, e che negli anni in cui hanno prestato i loro servizi sono diventate parte della famiglia. La vita che era stata strutturata intorno alle necessità del malato, con la giornata articolata seguendo ritmi ben precisi ed inamovibili, sembra aver perso ora il suo vero senso. Il nuovo spazio resosi disponibile è difficile da riempire con azioni mirate e significative ed il tempo, che sembra interminabile, scorre con improvvisa lentezza. E’ il momento di reinventare la propria esistenza in base a nuove linee e nuovi scopi e darle un diverso significato, ma l’impresa è alquanto ardua.

Non mancano neppure i sensi di colpa. Colpa per non avere fatto forse abbastanza per il malato, per non avere sempre saputo trattenere l’irritazione e l’impazienza, per avere anche a volta sperato di avvicinare il traguardo finale, ponendo così fine alla dolorosa prova. Sono tutte reazioni normali. Le abbiamo provate tutti, ma ecco che, adesso, ce ne colpevolizziamo e ce ne addoloriamo, temendo di avere voluto accelerare in tal modo la “partenza” della persona cara.
C’è anche chi si rimprovera il senso di sollievo provato al termine della lunga lotta sostenuta per mantenere in equilibrio la vita familiare, in mezzo allo sconvolgimento che reca il malato senza volerlo, e per soddisfare le proprie giustificate esigenze. E pur sentendosi finalmente libero dalle tensioni, le frustrazioni e le responsabilità che lo facevano sentire come derubato da un parte della propria esistenza, si vergogna di questo senso di libertà.

Ma c’è anche chi desidera sfruttare le esperienze acquisite per aiutare altre persone ancora alle prese con la lotta quotidiana, e che trova così la forza di colmare il vuoto dell’assenza e di vincere la solitudine offrendo i propri servizi volontari per promuovere azioni di assistenza e di solidarietà..

Federica Caracciolo